Totò Cuccia scriveva a penna 46 facciate di fogli protocollo (presentate da una lettera accompagnatoria) in cui raccontava l’intero periodo di leva, conclusosi nel 1920, quando era stato congedato. Aveva messo su carta quei ricordi sui fatti di mezzo secolo prima, più volte raccontati ai numerosi parenti e agli amici, per un motivo pratico: avendo chiesto indennità spettanti ai reduci di guerra si era sentito rispondere che non risultava nulla nelle scartoffie ministeriali sul periodo in cui aveva combattuto, era stato ferito e rischiato di lasciarci la pelle: “Dunque dove sono stato per quattro anni?”.
Cuccia ha scritto e corretto due volte il suo testo, anche con l’aiuto della moglie Maria, autrice di componimenti poetici e quindi con una certa familiarità con la scrittura. Il tutto è stato infine trasferito in bella copia, con grafia abbastanza chiara. Lo stile è colloquiale, assai vicino al linguaggio parlato; utilizza raramente termini gergali dell’ambiente militare (come sembrano i verbi infrattarsi e abbaddenzare); usa un italiano regionale privo in genere d’influenze dialettali: unica eccezione, mi pare, il raddoppiamento nel vocabolo retticolati alla maniera dei siciliani e il termine lagrimogino evidentemente poco utilizzato prima (e dopo) gli eventi narrati. A ipercorrettismo è forse da attribuire l’invenzione del termine dietrovie al posto di “retrovie” e l’uso personale del verbo scatenarsi nel senso di “liberarsi, togliersi da un impedimento”, mentre è presente una qualche incertezza nell’uso degli accenti e dei segni di interpunzione. Le maiuscole sono “di rispetto”: così Impero, Fanteria, Sergente, Farmacista, Tenente, Austriaco, Armistizio, ecc.
Santo Lombino
(Direttore scientifico del Museo delle Spartenze)