Reca il sottotitolo di Racconto contemporaneo il volumetto che Gaspare Morfino pubblicò nel 1861 a Palermo presso l’Officina Tipografica di Gaetano Priulla, con grande merito sottratto alla dimenticanza da I Buoni Cugini Editori e riproposto nella collana «Gli Introvabili».
Colpisce la mancata esplicitazione nelle soglie del testo – per dirla con Genette – di quell’aggettivo, storico, che consente l’immediata associazione dell’opera al cospicuo e fortunato filone narrativo ottocentesco che ebbe in Scott il maggior rappresentante europeo, in Manzoni e Guerrazzi i principali modelli di riferimento per gli scrittori della nostra Penisola.
La spiegazione è forse da ricercare nel fatto che Dopo il 4 aprile, questo il titolo dell’opera, non necessitava agli occhi dell’autore di ulteriori specificazioni. In altri termini, potrebbe esser sembrata ridondante a Morfino una dicitura del tipo racconto storico contemporaneo, come certo gli parve superflua l’indicazione dell’anno: in ragione della contemporaneità della vicenda, non poteva che trattarsi del fatidico 1860.
Significativa appare – ragionando appunto sul paratesto – l’insistenza sull’attualità del racconto, che suona quasi come una dichiarazione d’intenti: un tentativo, in verità solo parzialmente centrato, di distacco dai moduli sin lì imperanti della narrativa primo-ottocentesca.
Nel ventennio 1820-1840, il romanzo storico classico aveva fatto registrare in Italia un improvviso exploit, divenendo ad un tempo il modulo narrativo più discusso dai critici e più diffuso tra il pubblico: sul piano propriamente letterario il fittizio della narrazione, giocata su intrecci appassionanti, assolveva alla funzione di catalizzare l’attenzione del lettore, mentre l’elemento-storia contribuiva con forza alla legittimazione della materia romanzesca in un contesto culturale notoriamente refrattario alle innovazioni; sul piano politico-paideutico lo svolgimento della diegesi in tempi ormai trascorsi permetteva la divulgazione degli ideali patriottici e l’aggiramento della temuta censura.
Gli anni Quaranta furono segnati dal dibattito critico su nodi teorici non più eludibili, in particolare la formalizzazione della coesistenza di vero e immaginario all’interno della stessa opera. I due più illustri esponenti della narrativa storica in Italia assunsero posizioni diametralmente opposte: da un lato Manzoni procedette alla sconfessione del genere, sancendo l’incompatibilità di storia e invenzione (il romanzo in sé è opera di pura falsificazione e pericoloso è il potere di mistificazione che esercita sul vero storico); dall’altro Guerrazzi esaltò le possibilità offerte dalla congiunta fruizione degli strumenti storiografici e romanzeschi. Importante fu anche il contributo al dibattito offerto da Carlo Tenca che, dalle colonne della «Rivista Europea», si scagliò contro la decadenza della produzione letteraria coeva e contro l’industrializzazione dell’attività di romanziere. Per il critico milanese, autore pure di una parodia del romanzo storico, gli scrittori del tempo dovevano tentare di recuperare una dimensione socialmente rilevante, codificando su nuove basi il rapporto con il pubblico.
Il periodo che seguì alla stagione aurea del romanzo storico fu pertanto attraversato da istanze divergenti, e forte si fece sentire l’esigenza di provvedere a ristrutturazioni, variazioni e adattamenti statutari. Non mancarono contaminazioni con schemi e moduli tipici del romanzo d’appendice. Frattanto, presero ad esser sempre più frequentati il racconto autobiografico, la cronaca e la memorialistica. E, accanto al romanzo, andarono affermandosi anche il teatro di prosa e il melodramma, con una varietà di motivi e funzioni in grado di interpretare attese sociali e pulsioni sentimentali di un pubblico appartenente alla classe media. La stessa ibridazione tra componenti narrative e teatrali fu facilitata dalla circostanza che romanzo e melodramma condividevano molti degli «ingredienti strutturali». Tutto questo aveva luogo mentre in Europa germinava – grazie a Stendhal, Balzac, Flaubert – il grande romanzo moderno.
La rottura con la tradizione si deve ai monumentali romanzi di Giuseppe Rovani e Ippolito Nievo, che – procedendo per avvicinamento prospettico – innestano confini temporali da romanzo storico nel presente, momento in cui si produce l’atto narrativo. Con i Cento anni e le Confessioni decadono, più in generale, le componenti statutarie del romanzo di primo Ottocento, non ultime l’onniscienza e l’impersonalità del narratore e la sua estraneità ai fatti narrati.
L’elemento che più rileva ai fini della nostra ricostruzione è l’avvicinamento del tempo della narrazione alla contemporaneità. Un aspetto, come s’è visto, che fortemente caratterizza il racconto di Morfino, curiosamente censito come racconto estemporaneo all’interno della Bibliografia siciliana che Giuseppe Maria Mira diede alle stampe tra il 1875 e il 1881: dicitura inesatta, che tuttavia rende bene l’idea di un’elaborazione contestuale al dispiegarsi degli eventi narrati. Eventi certamente notevoli, come d’indubbio rilievo è, nel quadro della storia risorgimentale isolana (e particolarmente della città di Palermo), la data del 4 aprile 1860, giorno dell’insurrezione antiborbonica che prese le mosse dal convento della Gancia.
La portata storica del testo di Morfino è dunque fuor di dubbio. E, a prescindere dal giudizio che si intenda accordare all’opera letteraria, innegabile è il suo valore documentale.
Quanto alla struttura narrativa, l’autore intreccia, fino alle soglie del penultimo capitolo, le vicende sentimentali di due amici, Carlo Darena e Giorgio De Alberti, secondo le regole convenzionali del romanzo sentimentale: passioni ostacolate da terzi o non approvate dalle famiglie. Non mancano caratteri, situazioni e ambienti tipici della letteratura d’appendice: basti dire della figura del persecutore (un moderno oppressore, singolarmente interpretato da Marconi, il commissario di polizia); o rinviare agli agguati e ai rapimenti, dei quali proprio colui che dovrebbe essere garante della legge è invece il mandante; o, ancora, considerare le scene da osteria, che vedono coinvolti personaggi appartenenti agli ambienti malavitosi, i quali – in cambio di favori – ottengono protezione dagli organi di polizia.
Un’occhiata, pur rapida, ai titoli dei vari capitoli permette di cogliere la disposizione interna imposta da Morfino, giocata su due poli in tensione dialettica, finzione e storia: così, nei capitoli iniziali e centrali (Due amici, Sotto il balcone, Carlo, L’uomo della via Divisi, Emilia, Rosina, Marconi, L’arresto, La Prefettura, L’agguato), si evidenzia la progressiva introduzione in fabula dei caratteri, con avviluppamento delle tessere del romanzesco; di contro, nei capitoli finali (Un po’ di politica, Il 27 maggio), da un lato fanno capolino digressioni di argomento storico, dall’altro si assiste al coinvolgimento dei personaggi d’invenzione all’interno degli eventi che portarono alla presa di Palermo da parte delle camicie rosse guidate da Garibaldi, l’eroe liberatore, che pure fa la sua apparizione nel racconto.
Rosario Atria
(Dottore di ricerca dell’Università di Palermo, italianista, è autore di studi sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storico-popolare dell’Ottocento, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento. Si interessa anche di storia e letteratura archeologica di Sicilia).